Di Maio, si chiama trasformismo

Di Maio ha lasciato il M5S che tanto ha fatto per lui, secondo la sua stessa dichiarazione alla stampa. Anche se lui – ha aggiunto – non ha mancato di ricambiare, senza specificare come e quando. In una valutazione di massima sembra che il partito abbia fatto per lui molto di più di quanto sia stato ricambiato.
Ma questo agli italiani interessa meno della prospettiva dell’ennesimo spezzone di partito capitanato da Di Maio, che scende nell’agone in proprio, con una pattuglia nutrita di deputati e meno di senatori, per collocarsi nell’ampia zona grigia che tutti chiamano centro. Senza altra specifica definizione, ad esempio di valori, ma soprattutto di cose da fare: oggi, non domani.
Con l’occasione Di Maio ha precisato di non essere più uno come gli altri, essendo diventato più degli altri e, soprattutto, altro da sé stesso delle origini.
Una pagina non bella della politica, che, però, riproduce comportamenti antichi, addirittura ottocenteschi. Si chiama trasformismo.
Per stare con lui anche gli altri che si assiepano nel centro dovranno adeguarsi, a lui e alla situazione, negoziando su tutto, a partire dai posti di comando. Cosa serve al paese e quali siano gli strumenti per affrontare la crisi economica più grave dal dopoguerra ad oggi, però, Di Maio non ha detto. E non lo dirà, perché, in effetti, non ha niente da dire.