Parigi o dell’Educazione


Sebbene la maggior parte dei parigini si lamentino di una diffusa mancanza di politesse (e troppo facilmente si cade nella tentazione di aggiungere: di cosa, del resto, i parigini non si lamentano?), per una romana trapiantata nella capitale francese l’uso delle formule di buona educazione è flagrante: trasversale e democratico. Darsi del lei – se vouvoyer – è la prima regola: una ragazzina che entri in una boulangerie è accolta con un “Bonjour Madame”; per strada, un clochard a cui si è lasciata una moneta si saluta con un “Au revoir Monsieur”. A Parigi, le formule di saluto – prima e primaria espressione dell’incontro col prossimo – non discriminano, anzi annullano le differenze sociali così come annullano i titoli: di fronte bancone di un bar, ovvero in un qualsiasi contesto civico che esuli dall’ambiente strettamente professionale, nessuno è salutato come avvocato o dottore. Sono tutti, indistintamente, Signori. Se l’educazione è segno di rispetto, il rispetto è per tutti: l’égalité comincia dal buongiorno.

Nella vita di tutti i giorni, l’educazione è altresì il biglietto da visita della professionalità: e anche questa è di rigore. Lo si vede bene nel commercio: che venda foulards di Hermès nel VI° arrondissement o mutande in polyester nella più anonima delle mercerie, la commessa si prende altrettanto sul serio, altrettanto fedele (per non dire omologata) agli stessi rituali – lo stesso sorriso di bienvenue, la stessa gentilezza nel servire, le stesse espressioni di saluto. Così al supermercato, insieme allo scontrino, mai la cassiera congeda il cliente senza ringraziare affabilmente Monsieur e augurargli una piacevolissima giornata, con tutta la gentilezza di cui è provvista. Non è una cassiera del Monoprix: è una hostess di business class.

Dopo una buona dose di quotidiana civilizzazione parigina, entrare in un negozio del centro romano ed esitare a chiedere ciò che si cerca perché la commessa sta finendo di limarsi le unghie dietro la cassa, e all’entrare del cliente a malapena alza una palpebra, diventa un’esperienza surreale. E (con gran rammarico) si rimpiange una Capitale dove invece la serietà si impone: dove il proprio ruolo professionale, non importa quanto piccolo nella grande catena del mondo del lavoro, è visibilmente preso sul serio. Tanto più se implica il rapporto col pubblico ovvero il rapporto con l’Altro.

Tuttavia, è proprio intorno alla questione del rapporto con l’Altro che una riflessione si impone. Sia chiaro: la buona educazione e le sue alleate – gentilezza e professionalità – fanno piacere, e ci si abitua. Ma quanto la politesse con cui ci si avvicina a un estraneo prende la forma di una sottile barriera che al contempo lo allontana? Quanto l’in-differenziata deferenza con cui ci si rivolge all’Altro impedisce il sorgere di una differenziazione invece fondamentale, ovvero quella dell’individualità, nella quale risiede poi il senso di ogni incontro? Si potrebbero perfino rispolverare alcune riflessioni di Rousseau, dove il rispetto altro non è che una distanza: la protezione dal pericolo, l’arma della salvaguardia individuale.

La panettiera, cristallizzata nella sua professionalità e con la quale perfino il dialogo è preimpostato nelle rassicuranti formule dell’educazione, cosa esprime di sé e quale spazio di espressione lascia all’Altro? – lo spazio di una sorpresa, di una risposta fuori posto ma autentica, di uno spiraglio improvviso sull’anima. La panettiera dal sorriso a orario continuato è così professionale e così legata alle sue formule che viene da chiedersi se la sua gentilezza non sia ormai che un automatismo: tant’è che alle sei del pomeriggio, dopo avermi dato la baguette, mi augura cordialmente una buona giornata. I romani risponderebbero: Signo’, da mo’ che è giorno. Ma lei non lo capirebbe: e non perché non capisca l’italiano, ma perché è proprio smettere di prendere sul serio il suo ruolo e la sua stessa esistenza su questa terra che le risulta terribilmente difficile.

 

Conversazioni
28 2 2017 - 13:48

Bravissima, Valentina Vestroni ! ( vedo solo ora questo Suo post sull’ottimo giornale digitale di cui è redattrice e mi rallegro della fortuna di averlo, sia pure tardivamente, scoperto). Sono perfettamente d’accordo con Lei, conoscendo oltretutto bene la Francia ( dove ho vissuto e dove torno quando posso ). A differenza del ” vouvoyer ” dei negozi parigini – che traduce , come Lei ben dice, serietà e rispetto ( degli altri ma anche di sé e della funzione che si svolge ) il romano ” tutoyer ” ( ma qui a Milano, dove vivo attualmente, la situazione è solo un poco migliore ) esplicita solo la mala educazione, il preteso ” afflato egualitario ” di tanti sprovveduti e una ormai endemica sciatteria.
La ” politesse “- c’è poco da fare – è tuttora indice dello stato di salute delle varie civiltà. La Francia avrà altri difetti ( chi non ne ha ) ma certo che L’ Italia , oggi, quanto a costumi e rapporti interpersonali, non sta messa bene, come si dice colloquialmente. Mi rallegro peraltro che persone giovani come Lei la pensino in questo modo, sfatando il mito che siano solo le ” persone di una certa età ” ( categoria alla quale appartengo ) a lamentarsi… Grazie ed ancora complimenti.

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